Critica

Innocenzo Odescalchi

by Ludovico Pratesi

 

“La luce mi porta al mio agire”. Con questa frase, Innocenzo Odescalchi definisce la sua pittura come una continua ricerca di luce. Una luce però che illumina visioni notturne con chiarori aurorali o bagliori vespertini, che colpisce improvvisa vertigini materiche, trame gestuali violente o fugaci, soglie e confini dove il colore precipita e muta, per avvolgersi in un segno vorticoso o distendersi in piane armonie, scandite dalle misteriose note dell’anima. Una pittura intensa, mobile, umorale come il carattere di Innocenzo. Mutevole, nei rapidi passaggi cromatici dai toni più scuri ad improvvise solarità, inattese e per questo più forti. Una pittura che gioca con la materia per entrarci dentro e possederla, in un contatto mai superficiale, ma necessario. Allora, il rifiuto della tela per la tavola, “più sicura”, dice Innocenzo, nell’assorbire il colore dato con tecniche diverse, un colore manipolato, trasformato nella pelle screziata di un camaleonte, pronta ad accogliere altre tinte, altri segni, altri bagliori per contenerli tutti nel quadro. Non figure, dicevamo, ma visioni dell’inconscio. Provocate, forse, da un semplice sguardo su un muro sbrecciato, o da lampi improvvisamente accesi nella tenebra. O anche – perché negarlo? – da memorie di opere viste e subito amate: le pennellate violente di de Kooning, il rigore assoluto delle avanguardie russe, l’astrattismo italiano del dopoguerra, da Vedova a Schifano, il “dripping” di Pollock. Ma Innocenzo và oltre, gioca con i colori e i materiali, insegue la sua luce interiore, ci porta ai confini del suo mondo personale, abitato da gesti e superfici, dove si possono comporre, per un attimo, profili di memorie passate o pensieri lontani. La sua pittura basta a sé stessa: non ha bisogno di troppi commenti, ma di sguardi attenti e silenziosi, per produrre i suoi docili, ma penetranti, incantesimi.